Kintsugi, l’arte di riparare oggetti rotti

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Quando si rompe un oggetto, la prima sensazione che si prova è dispiacere, sostituita subito dopo dal desiderio di voler tornare indietro nel tempo per evitare la rottura della cosa a noi cara. Anche da questo i giapponesi hanno tratto un insegnamento, mostrando come un oggetto rotto può essere riparato per diventare ancora più bello di prima.

L’arte di riparare

Rompere qualcosa, ma poterlo recuperare
Rompere qualcosa, ma poterlo recuperare

Kintsugi o kintsukuroi, letteralmente significa kin “oro” e tsugi “riparare”, è la pratica utilizzata dai nipponici con cui rimettono insieme i cocci, solitamente di oggetti in ceramica, attraverso una mistura di lacca e polvere d’oro, d’argento o bronzo. E’ una tecnica che richiede pazienza e una certa manualità, infatti il kintsugi ha dei tempi un po’ lunghi nella realizzazione, solo per l’asciugatura ci vogliono dai tre giorni a una settimana. Inizialmente usata per riparare le tazzine tenmoku, cioè da tè, che si rompevano durante la cerimonia, questa pratica è l’arte di donare nuova vita all’oggetto che avrà un maggior valore economico grazie alla presenza di metalli preziosi.

Si formerà in modo naturale un intreccio di linee sempre diverso, in base ai segni di rottura dell’oggetto, facendo diventare così ogni pezzo unico. Vasi, ciotole, teiere e tazze una volta rotti possono prendere nuova vita, grazie al collante urushi, che viene mescolato al metallo prezioso. Questa lacca di colore rosso è ricavata dalla pianta rhus verniciflua, utilizzata già da millenni, sia dai cinesi che dai giapponesi, usata inizialmente per la creazione di armi, grazie alla sua caratteristica adesiva.

C’è una storia che potrebbe aver dato inizio al kintsugi, durante il periodo Muromachi, l’ottavo shogun (comandante dell’esercito che governava il Giappone) della casata Ashikaga ruppe la sua tazza da tè preferita. Decise di mandarla in Cina per farla riparare, ma quando tornò era si ricomposta, ma le crepe erano state sigillate con della polvere di ferro, dando così alla tazza un aspetto rozzo. Ashikaga però non si arrese e diede la sua tazza ad alcuni artigiani giapponesi, a cui venne l’idea di riempire quelle fessure con della polvere d’oro, impreziosendo l’oggetto.

L’arte di ricostruire

Applicare il kintsugi anche su se stessi
Applicare il kintsugi anche su se stessi

Qual’è l’idea che si vuole trasmettere attraverso questa pratica? Perchè un pensiero c’è, i giapponesi non lasciano mai nulla al caso. Da un’imperfezione o da una ferita, può nascere qualcosa di più bello, che dona forza e perfezione sia estetica che interiore.

All’interno di questa pratica c’è una filosofia zen, i cui concetti sono tre: mushin, cioè “senza mente”, liberarsi dai pensieri e dalle preoccupazioni, sentendosi liberi e senza dover perseguire forzatamente l’eccellenza. Impermanenza, anicca, accettare che tutto è di passaggio, come c’è un inizio c’è anche una fine, convivere con questo pensiero con serenità. Ed in ultimo mono no aware, l’empatia verso gli oggetti, imparandone così ad apprezzarne il valore e la bellezza. Bisogna imparare a non vergognarsi delle proprie cicatrici o ferite che molto spesso non sono quelle fisiche e che lasciano su ognuno di noi segni diversi.

Quello che vorrebbe ispirare questa filosofia è di non buttare ciò che si è rotto, tutto si può riparare e ci si può anche guadagnare. Ognuno di noi è formato anche dalle brutte esperienze, servono per imparare, per crescere e in qualche modo a diventare unici, “impreziosendo” le proprie fragilità.

Conoscevi già questa pratica? Cosa ne pensi? Avresti un oggetto a cui tieni particolarmente e su cui proveresti il kintsugi?


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